Forse s’avess’io l’ale

Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

Da “Canto notturno di un pastore errate dell’Asia”di Giacomo Leopardi.

Il poeta compose questa celebre lirica a Recanati fra il 1829 e il 1830 ispirato dalla suggestiva figura dei Kirghisi, pastori dell’Asia che erano soliti intonare canti alla luna nei momenti di riposo notturno. Il pastore della lirica leopardiana è un uomo costretto ad una vita errante, proprio come la luna attorno alla Terra, e vorrebbe trovare risposta ai dubbi angoscianti che gravano nel suo animo.

Interroga la luna, sua compagna di lunghe notti solitarie, ma la luna è silenziosa. Pare indifferente alle domande del pastore che le rammenta la sofferta esistenza di ogni essere umano, a partire dalla nascita. Eppure, egli continua ad interrogare “l’eterna peregrina” che, però, non può comprendere la natura mortale dell’uomo; lei, corpo celeste immortale e senza dolore…

Alla fine non rimane al pastore che abbandonarsi alla fugace dolcezza di un sogno ad occhi aperti. Un “sogno alato” che lo libera dalla tragica consapevolezza della sua condizione umana e lo porta a volare con la fantasia, su le nubi e fra le stelle.

“Forse s’avess’io l’ale”…la felicità sarebbe possibile, finalmente, nell’infinito cielo! Ma ogni uomo è incatenato al suo destino terreno e non c’è modo di sottrarsi al dolore perché soffrire fa parte della stessa vita.

“Forse s’avess’io l’ale…”